Ai primi del secolo scorso due giganti della psicologia – Ivan Pavlov e Burrus Skinner – hanno studiato i meccanismi di base del comportamento umano individuando due forme di apprendimento che, a prescindere dalla nostra capacità critica tendono a plasmare il nostro comportamento. Questi due metodi sono stati, significativamente, chiamati condizionamento classico (Pavlov) e condizionamento operante (Skinner). Il secondo è quello che ci interessa maggiormente qui perché è quello che abbiamo visto in azione con le mascherine.
In due parole il condizionamento operante è la tendenza, da parte di un animale (soprattutto topi o piccioni, ma non solo) o di un uomo, di ripetere un certo comportamento se si viene premiati adeguatamente, anche quando, in seguito, il premio non verrà più riconosciuto. Questo tipo di apprendimento – ma va benissimo chiamarlo “condizionamento” perché si tratta di un processo attraverso il quale il nostro comportamento viene, a tutti gli effetti, condizionato – è alla base di comportamenti superstiziosi, del pensiero magico, di molti sistemi educativi, della politica, della pubblicità.
Noi facciamo qualcosa e veniamo premiati e, in futuro, tendiamo a ripetere la stessa azione nella speranza che … succeda qualcosa di buono. In realtà non è nemmeno una speranza, che richiederebbe una qualche forma di aspettativa razionale, ma è proprio una alterazione inconsapevole dei nostri schemi di comportamento.
Nel caso degli esseri umani, il condizionamento non richiede una ricompensa fisica, spesso funziona benissimo con gratificazioni di tipo formale o sociale. Per esempio, i voti in classe.
In questo senso, il meccanismo di valutazione andrebbe visto con un certo sospetto perché rinforza la nostra innata tendenza a ripetere ogni azione che ha una conseguenza positiva anche senza motivazioni razionali per farlo. È una trappola per menti brillanti.
Spesso l’educazione premia la fedeltà e quindi diventa una scuola per supertopi piuttosto che per uomini.
Sia come sia, il condizionamento operante ci fa ripetere (o evitare) quelle azioni che hanno avuto conseguenze positive (o negative) anche in assenza di motivazioni razionali. Esattamente quello che è successo con la mascherina. Chi ha cominciato a indossarla e si è sentito gratificato, o per il sollievo di una falsa sicurezza, o per l’accettazione dei suoi simili, o per aver evitato l’esecrazione generale. In questo modo, ogni volta che ha indossato la mascherina ha sentito che faceva la cosa giusta e, senza accorgersene, ha ripetuto questo comportamento: come farsi il segno della croce davanti a un simbolo sacro, fare le corna quando si vede passare un carro funebre, toccarsi i cosiddetti quando qualcuno accenna a qualche evento infausto. Come il topo ripete le azioni che si sono accompagnate al formaggio, così il comportamento di tanti non è che una forma articolata di condizionamento.
Ecco che arriva il virus, con la campagna del terrore e non si sa che fare. Si sta in casa convincendosi che è un sacrificio indispensabile, ma quando si esce, ecco che viene proposto un gesto scaramantico: mettersi la mascherina. Vengono date giustificazioni apparentemente razionali, che però sono contraddittorie (il virus non è fermato dalla mascherina, la mascherina si sporca, non lascia respirare e tante altre), ma soprattutto la mascherina è un simbolo sociale per dire agli altri:
io metto la mascherina perché a me interessa il benessere degli altri. Io sono moralmente migliore di chi non la mette.
E così piano piano, mettere la mascherina diventa un gesto abituale, qualcosa di simile a quello che deve essere successo quando i cristiani convinsero la popolazione che la nudità era qualcosa di cui doversi vergognare o quando i mussulmani convinsero le donne che mostrare i capelli era qualcosa di imbarazzante. Prima le mutande, poi il velo o hijab, e oggi qualcosa anche per i laici: la mascherina.
La mascherina copre e al tempo stesso segnala. Inoltre, è un elemento che, nella sua semplicità, non conosce classi sociali, se non il desiderio bigotto di essere meglio degli altri. Infatti, si è visto come è stato utilizzato dai politici, sia nella sua presenza che nella sua assenza, a scopi promozionali opposti.
Aggiungo anche che la mascherina, intesa come misura profilattica per tutti e per tempi lunghi, non è una misura a costo zero; ha costi di natura igienica, sanitaria, sociale, culturale, pedagogica. Questi costi vanno valutati e confrontati con l’effettivo rischio rappresentato dal virus, un rischio che tutt’ora ci si ostina a non voler quantificare in modo oggettivo.
La mascherina, a parte alcuni casi particolari, non viene indossata per motivi razionali, ma per sentirsi parte di un gruppo, il gruppo di coloro che portano la mascherina che, ne sono sicuri, sono meglio degli altri.