In questi giorni, siamo tutti alle prese con uno spettro che la società moderna aveva completamente esorcizzato: la morte. Il tristo mietitore era stato messo da parte e, come aveva detto un filosofo che non apprezzo particolarmente da un punto di vista umano, Blaise Pascal, tutti noi corriamo verso qualcosa dopo avere messo davanti ai nostri occhi un paravento per non vederlo. Questo qualcosa è, ovviamente, la morte.
A molti, è evidente, la morte fa paura. Rappresenta la fine della nostra esistenza. Per esorcizzarla le principali religioni (non tutte) hanno proposto varie forme di immortalità, che sostanzialmente suggeriscono che, dopo la morte, ci sia ancora qualche forma di vita. Sono forme di negazione della morte. Per il principe di Lampedusa, era una bellissima fanciulla (sempre galante lui), per molti è uno scheletro incappucciato.
Eppure la morte fa paura soprattutto perché noi ci identifichiamo con il corpo e il corpo, è inevitabile, è destinato a corrompersi e decadere. In questi giorni di pandemia, la probabilità della fine del corpo si è leggermente alzata. E a molti questo fa molta paura. Non era così, tuttosommato, nel passato. Un po’ perché la morte non era nascosta dal sistema sanitario e un po’ perché si moriva con grande facilità e quindi ci si faceva un po’ il callo.
Ma qui non voglio parlare di costumi sociali, quanto del significato della morte a seconda della domanda fondamentale di ciascuno di noi: che cosa sono io?
Se pensiamo di essere un corpo, la morte ci fa molta paura, perché la morte è la fine del corpo. Se pensiamo di essere un anima, la morte dovrebbe fare meno paura, perché il corpo muore e l’anima continua a vivere. Sì, ma dove e come? Ammetterete che c’è un bel po’ di incertezza sulle ultime due domande. E quindi tanto tranquilli non si è comunque.
Che cosa dice in proposito la Spread Mind? Dice che non siamo né corpo né anima. Siamo mondo. Anzi siamo il mondo che esiste in conseguenza del nostro corpo. Ma, crucialmente, non siamo quell’insieme di cellule che è responsabile per la nostra esistenza.
Non siamo il nostro corpo. Il corpo è solo una delle condizioni per la nostra esistenza.
Questo ha conseguenze molto importanti per il rapporto con la vita e con la morte. Non siamo una entità che deve perdurare, come una ameba o come un il litro di latte nel frigo che si cerca di far durare il più a lungo possibile. Siamo una serie di oggetti relativi che, di momento in momento, il nostro corpo porta a esistere nel mondo. Ogni momento di noi, quindi, esiste nel preciso momento in cui si consuma la sua possibilità di esistere. Noi siamo, tanto per capirci, più simili a un evento che a un oggetto statico. Gli oggetti relativi non sono cose che perdurano, ma cose che accadono. La loro esistenza si consuma nel loro divenire.
Un tramonto muore? No. Un tramonto accade. Un arcobaleno finisce? Neppure, perchè l’arcobaleno è dato in ogni istante, nella sua completezza. E’ intrinsecamente legato a un momento, del quale definisce la sostanza. Una esecuzione di un brano di Mozart, muore? Nemmeno. Esiste proprio perché si consuma nel tempo. Il tempo, anzi, è una conseguenza della successione di eventi. Una parola pronunciata? Una poesia? Una colpo di Tennis muore? No, perché la sua natura è quella di completarsi in un certo spaziotempo. Se fosse più lungo sarebbe un’altra cosa. Anche il brano musicale o l’arcobaleno, se fossero più lunghi, se perdurassero maggiormente, sarebbero un’altra cosa.
La Spread Mind non ci propone il tipo di immortalità ingenua proposto dal perdurare del corpo o dell’anima, ma ci fa capire che il nostro essere è eterno. I momenti del nostro essere, che definiscono ciò che siamo, sono tutti i momenti della nostra vita. Cesare sul Rubicone, il primo bacio, un momento felice, uno spavento, le decisioni che abbiamo preso.
Il nostro essere non è la continuazione vegetativa delle nostre cellule, ma l’insieme delle cose che questo corpo che ci portiamo appresso ha reso possibili.
E quindi il cuore della faccenda non è tanto il decadimento e la fine del corpo, ovvero la morte biologica. Ci dobbiamo semmai preoccupare (se vogliamo) della nostra vita, di quello che il nostro corpo fa esistere che è eterno, nel senso che non è consumato dal tempo, bensì è reso possibile dal divenire.
Il problema non è che il contenitore ha un limite, ma quello che ci mettiamo dentro il contenitore.
La spread mind è una teoria della pienezza dell’esistere. Il concetto di morte è derivato dalla ipostatizzazione dell’idea di vuoto e di mancanza. Per la spread mind noi non possiamo mai cadere fuori dal mondo, perché siamo mondo. La spread mind non ci illude promettendo una ingenua continuazione del nostro corpo come il litro di latte nel frigorifero, ma ci consente di concentrarci sulla vita. Il divenire non è la minaccia del perdurare di un corpo, il divenire è la condizione della realizzazione di quei momenti del mondo che sono tutt’uno con il nostro esistere.
Noi non siamo né mortali né immortali. Siamo eterni. L’eternità è il significato che portiamo ad esistere. Il nostro fine è riempire questa eternità di momenti significativi. Non bisogna temere la morte, ma la vuotezza della vita.
Non di quando moriremo, ma di quello di cui la nostra vita è fatta. Non dei bordi della esistenza, ma del suo contenuto.
Alla fine dell’opera “Il Giardino dei ciliegi” di Chekov, il maggiordomo della famiglia, giunto alla fine della vita, commenta
La vita è passata, è come se non avessi vissuto.
Con tono più leggero un grande poeta italiano, Francesco Guccini, ha scritto ” le stagioni ed i sorrisi/Son denari che van spesi con dovuta proprietà.”. Il punto è lo stesso: non siamo un litro di latte il cui scopo è durare il più possibile. Siamo ciò che quel litro di latte rende possibile: baci, idee, creazioni, gesti, momenti.
Non siamo immortali, siamo eterni.