Quando pensiamo alla nostra esperienza siamo subito portati a pensarla come diversa dall’esistente: da un lato il mondo nel suo esistere e dall’altro la nostra esperienza di esso.
L’esperienza è niente altro che ciò che si suppone non esista per poter essere ciò che non è.
Noi abbiamo una concezione negativa dell’esperienza in quanto non mondo, o non esistente. Non possiamo avere una concezione positiva dell’esperienza, ovvero l’esperienza in quanto esperienza, perché se ce l’avessimo, il mondo non sarebbe più accessibile, e nemmeno necessario.
Non vediamo mai l’esperienza della mela come qualcosa di positivamente diverso dalla mela. Noi vediamo la mela. Anzi! La mela è parte della nostra esistenza. Non vediamo mai l’esperienza in quanto esperienza.
Il bisogno di inventarsi l’esperienza della mela, per spiegare il fatto che ci sia una mela nella nostra esistenza, deriva da un’ipotesi non necessaria e assolutamente dannosa: la separazione tra ciò che noi siamo e ciò che troviamo nella nostra esistenza-esperienza.
Il fatto stesso di chiamare “esperienza” la nostra esistenza presuppone che il nostro modo di essere sia distinto da quello dell’esistenza.
Noi non facciamo esperienza, noi esistiamo.
Avere chiamato la nostra esistenza esperienza, coscienza o apparenza soggettiva (o mille altri nomignoli) è stato una stravaganza del pensiero occidentale (durata da Platone a oggi) frutto del ritenerci separati dal mondo di cui faremmo esperienza.
L’esperienza (o coscienza o mente) è stata introdotta per giustificare l’impossibile: essere quello che non si è.
E così l’esperienza non è un concetto positivo, ma un concetto negativo, nato per descrivere una doppia negazione. Nell’esperienza ciò che io sono (qualsiasi cosa sia) farebbe esperienza di altro da sé, cioè sarebbe quello che non è. Ma poiché l’esperienza non può esistere, perché se esistesse come il resto non potrebbe essere quello che non è.
Nel pensiero occidentale, l’esperienza è quello che non esiste per potere essere quello che non è.
Questa doppia negazione fortunatamente si risolve nella sua eliminazione per lasciare soltanto l’esistente. Se Heidegger avesse fatto un passo in più, forse, sarebbe arrivato alla identità mente-mondo.
Faccio un esempio. L’esperienza del giallo (chiamatela qualia, esperienza fenomenica, percetto, rappresentazione mentale, idea), altro non è – per dirlo in modo ontologicamente neutro e non usare alcun termine mentalistico – che il non giallo che vorrebbe essere il giallo senza poter essere il giallo. La mia idea del giallo, dovrebbe essere gialla senza essere, fisicamente, gialla.
L’idea di esperienza è la manifestazione di una schizofrenia metafisica completamente assurda, ma è stata per secoli il fondemanto del pensiero occidentale. E’ tempo di rendersene conto.
Non a caso, per affrontare il nodo del pensiero, Aristotele aveva introdotto la potenza che, appunto, sarebbe la condizione in cui si è quello che non si è o non si è quello che si è. Questa dovrebbe essere l’animo che “è in potenza tutte le cose”. Ma è un tentativo destinato al fallimento metafisico e logico.
Invece la soluzione è sorprendentemente semplice, basta accettare di essere ciò che troviamo nell’esistenza. Non “cogito ergo sum”, ma semplicemente “sum”.
Il concetto di esperienza, in molte tradizioni di pensiero, non è altro che il non essere che vorrebbe essere quello che non è; una doppia negazione che alla fine si riduce alla pura esistenza – l’identità mente-mondo.